BIBLIOTECA “G.B. AMICO”
L’ALTRAVISIONE - 11 febbraio 2005

L’ARGENT
di Robert Bresson
con Didier Baussy, Michel Briguet, Marc Ernest Fourneau, Caroline Lang

Soggetto: Robert Bresson, Lev Tolstoj (La cedola falsa);
Fotografia
: Pasqualino De Santis;
Musiche
: J. S. Bach; 1982 Francia Svizzera

Miglior regia al Festival di Cannes 1983

Cos’è un film per Bresson?
Forse stiamo un poco rischiando a presentare un film di Bresson, e proprio l’ultimo, L’argent, che chiude la parabola artistica del regista quasi 20 anni prima della sua morte (avvenuta 6 anni fa, nel 1999): troppo singolare è la sua produzione, che esce fuori da qualsiasi regola del mercato e irride persino le regole comuni della drammaturgia; L’argent, poi,  è l’atto ultimo di un prosciugamento dell’immagine che forse non ha eguali nella storia del cinema. Ma, ci chiediamo, se non si vede un film di Bresson nella rassegna di una Biblioteca, dove lo si vedrà? Ogni suo film, infatti, procedendo per negazione dell’immagine, finisce con il produrla ancora più nitida ed efficace.
«Nel cinematografo – dice Bresson – è difficile non mostrare le cose. Bisogna mostrarle senza farle vedere. Mostro solo una parte delle cose per fare indovinare il resto». La tecnica, dunque, più che teatrale, è pittorica: come il pittore stende colori sulla tela ed è poi l’occhio dello spettatore a creare l’immagine (e quindi il pensiero), così il regista accumula inquadrature ed è poi l’occhio dello spettatore a creare il film (e il pensiero nascosto del film). E’ “tra” le immagini più che “nelle” immagini il segreto nascosto in un film. Bresson fa questo bellissimo paragone:«Quando un elettricista vuole collegare due fili, li scopre, altrimenti la corrente non passa. E’ nei punti di giuntura che si trova la poesia». «E’ il film che dà vita ai personaggi, non il contrario».

Gli attori “automatici” di Bresson
Da ciò si capisce l’avversione di Bresson per l’attore professionista che ha la pretesa di presentarsi già come “oggetto artistico”, capace di inquinare la nitidezza sequenziale delle immagini. Dice Bresson: «Io non mostro mai ai miei attori il lavoro fatto nella giornata, poiché desidero che essi non abbiano coscienza del loro personaggio. Quel che importa non è quello che l’attore rivela, ma quello che nasconde». E infatti gli attori di Bresson (soprattutto nell’argent) non hanno esperienza di recitazione (soprattutto teatrale). Le motivazioni sono molteplici e  le spiega lo stesso Bresson: «L’errore che si compie facendo del teatro fotografato è quello di non prendere in considerazione l’automatismo che esiste nella vita; i nove decimi delle azioni che si compiono sono automatiche, e questo prova che il cinema che si fa attualmente è falso, perché riproduce atteggiamenti prefabbricati, mentre quelli reali della vita sono automatici». «Non è vero, come si dice, che secondo me gli attori non devono fare niente. Devono solo essere spontanei. L’esperienza mi ha insegnato che più sono automatico, più sono commovente. L’arte drammatica è qualcosa da evitare…Usare i mezzi del teatro per fare film è come piallare con una sega». Per Bresson i gesti degli attori professionisti non sono spontanei, la vera spontaneità invece è quella che passa attraverso “mezzi meccanici”, cioè gli automatismi dei suoi attori non professionisti. Dunque il mondo di Bresson non è quello dell’immagine in sé quanto piuttosto quello della poesia e della pittura. Così la macchina da presa deve riprendere la “realtà bruta”, ma poi il regista , separatamente e in un secondo tempo, può organizzarla in un ordine che non è quello naturale, ma quello voluto da lui, «così come fa il poeta che prende le parole dal dizionario per poi metterle in un certo ordine. Allora soltanto il cinema diventa un’arte creativa». In ogni caso “il vero” del cinema non può essere quello delle altre arti, ma il suo proprio. Il cinema infatti ancora più della scrittura ha la capacità di “squilibrare per riequilibrare”, basti dire che il cinema sonoro ha potuto inventare nell’arte ciò che ancora non esisteva: il silenzio.

Il tema centrale: il male supera il Bene?
I film di Bresson vengono genericamente qualificati come “spiritualisti”; è, questa, una semplificazione che non tiene conto della complessità contenustica delle sue sceneggiature.
Non è certo un caso che le frequentazioni letterarie di Bresson vadano da Bernanos, a Dostoievskij, a Tolstoj, autori cristiani che hanno portato all’estremo la riflessione teologica sul rapporto tra Bene e male, tra peccato e Grazia, proponendo personaggi limite incapaci di una misura, di un equilibrio. Molto si è scritto, soprattutto in Italia, del “giansenismo” di Bresson. E’ vero che da un regista cattolico francese, passato al vaglio dei Lumi, non ci si può aspettare una religiosità consolatoria o dialettica, ma è pur vero che chiamare Bresson “giansenista” è un modo per liberarsene: “a sinistra” per poter accogliere senza sensi di colpa l’innegabile artisticità dei film di Bresson (ammirato, ma non amato); “ a destra” per digerire il suo pessimismo e la sua radicalità insofferenti di schemi consolatori. (Cf. FERRERO, A., Robert Bresson, Il castoro 2004). E in effetti i personaggi di Bresson sono in caduta libera dentro le tenebre del male e sembrano solo in extremis ripescati senza una loro particolare partecipazione, presi dalla Grazia quasi con la stessa inspiegabilità della caduta nel peccato. Dice Tito Perlini a proposito del finale de L’argent (op. cit. p. 137):«
Il finale è destinato a rimanere enigmatico, suscitando interrogativi inquietanti. Bresson si confronta, qui, con il massimo dell’ambiguità: bene e male, spinti all’estremo, si toccano e sembrano intrecciarsi in modo inestricabile. […] Al bene è consentito di riaffacciarsi grazie all’esperienza radicale del male, mediante un attraversamento in cui il male stesso si esaspera al punto da rovesciarsi nel suo opposto».

La cedola falsa di Tolstoj
Infine un discorso a parte, e più ampio, meriterebbe il rapporto tra L’argent e il racconto di Tolstoj da cui parte la sua sceneggiatura. Nel lungo racconto Tolstojano la vicenda “cardine” di Stepàn Pelagèjuskin che uccide Marija Semenovna si colloca esattamente al centro del balletto peccaminoso che scatena la cedola falsa appioppata dai due ginnasiali Machin e Mitija alla stupida moglie di Evgenj Michailovic. Tolstoj compone perfettamente ad anello il racconto: nella prima parte perciò espone il dilagare del male come in un effetto dòmino che da Evgeni arriva fino ad uno starets in fama di santità; nella seconda parte, attraverso il sacrificio espiatorio-cristologico della Semenovna (immersa nella pratica evangelica delle Beatitudini) parte la conversione del suo assassino e via via la redenzione offerta a tutti quelli che nella prima parte si erano votati al male. Bresson invece sintetizza tutto in una sola vicenda (quella di Yvon) accentuando il senso di solitudine e il carattere individuale della salvezza e negando al suo film lo sviluppo della Grazia, di cui evidenzia semplicemente ( e in questo un po’ giansenisticamente) l’irruzione imprevedibile nell’escatologico finale aperto. Finale che acquista un sapore tutto particolare una volta che si sia constatato che L’Argent è l’ultimo film di Bresson (qualunque sia il motivo per cui non ne abbia girati altri e costituisce quindi il suo testamento artistico; purtroppo, ma lui stesso quasi lo prevedeva, senza degni eredi.