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Biblioteca “G.B. Amico”
del Seminario Vescovile di Trapani
L’AltraVisione 2004-2005 - (IV edizione)
14 gennaio 2005
Caterina va in
città
di Paolo Virzì
con Sergio Castellitto, Margherita Buy, Alice Teghil, Claudio Amendola e
Flavio Bucci.
[Italia 2003, 105 min.]
TRAMA
Il film racconta l’avventura a Roma della
famiglia Iacovoni: Giancarlo (Sergio Castellitto) è un insegnante di
ragioneria animato da propositi di riscossa, che dopo il trasferimento
nella Città spera di inserirsi tra quelli che contano; Agata, sua moglie,
(Margherita Buy) è una casalinga provinciale e sempliciotta, ma desiderosa
d’amore; Caterina la loro timida figlia tredicenne ha la passione del
canto polifonico. La ragazzina, con la sua ingenuità e il suo candore,
diviene oggetto di contesa e di rivalità tra le compagne di classe
Margherita e Daniela, la prima, figlia di una scrittrice e di un noto
intellettuale, la seconda, rampolla di un importante esponente
dell’attuale Governo. Caterina scoprirà a proprie spese il mondo di quanti
dietro il paravento di un’appartenenza culturale e politica vivono nel
proprio egoismo, intenti a curare i propri interessi e all’appagamento dei
propri desideri.
I PERSONAGGI
Il regista voleva contrapporre l’ingenuità pettegola della provincia
alla malizia della Città, e c’è riuscito; in primo luogo per le
caratteristiche delle piccole protagoniste che sono esattamente come sono.
Vedendo il provino di Caterina-Alice ci si accorge che tra il suo muoversi
prima e dentro il film davanti alla camera da presa non c’è alcuna
differenza. Questa recitazione così informale, così dialettale, che
potrebbe sembrare la debolezza del film ne costituisce invece la forza. La
piccola attrice infatti (Alice Teghil) prelevata da una scuola media di
Tivoli si stupisce del mondo di Roma, probabilmente perché realmente lo
sta frequentando per la prima volta in mezzo a persone conosciute da poco
che sanno sfruttare al massimo la sua timidezza. Intorno a lei invece
funziona benissimo il cast di attori superprofessionisti come Castellitto,
la Buy, Claudio Amendola, che rendono bene il mondo degli adulti fatto di
convenzioni e di mete da acquisire ad ogni costo. Nel dialogo tra le
generazioni il film mette a nudo, contemporaneamente alla precocità delle
nuove generazioni, anche l’infantilismo degli adulti che, sentendosi
inadeguati, finiscono con lo scimmiottare proprio i loro figli con le loro
mode; mode che altri adulti sanno adeguatamente imporre ai piccoli, in un
perfetto circolo vizioso.
IL FASCINO INDISCRETO DELLA BORGHESIA
Nel rapporto tra la borghesia provinciale e quella cittadina nessuna
delle due di fatto esce vincente nel film. La prima è ingenua per certi
versi, ma per altri grossolana e triviale; la seconda è superficialmente
impegnata a impegnarsi (la borghesia intellettuale di sinistra) o
impegnata a disimpegnarsi (la borghesia capitalista di destra). In mezzo
la famiglia Iacovoni (Giancarlo-Castellitto, Agata-Buy e Caterina)
costituisce tre possibili risposte: Giancarlo, che snobba la borghesia
provinciale e brama quella cittadina rappresenta il fallimento di entrambe
e quindi la loro mancanza di identità; la moglie, Agata, finisce con
l’accontentarsi della provincia con i suoi riti e i suoi vizi alla
conquista di una semplicità che è tuttavia incapace di assumersi alcuna
responsabilità; Caterina rappresenta la terza via, quella sembrerebbe del
regista Virzì, in cui l’armonia è una conquista interiore che non può
dipendere dal coro in cui si canta (quello di Tivoli o di Santa Cecilia).
UN FILM DI STEREOTIPI?
Lo “stereotipo” è, nella sua accezione primitiva, la ristampa identica
di un testo, ma nel linguaggio comune viene ad indicare quel modo di
essere ripetitivo che costringe le persone o i gruppi sociali dentro
schemi fissi di pensiero e comportamenti convenzionali , dentro i quali è
difficile elaborare percorsi di vita liberi e originali. C’è una
differenza sostanziale tra un film stereotipato e un film sugli
stereotipi: il primo verrà analizzato come fenomeno del suo tempo
(pensiamo a certa commedia italiana degli anni ’70), il secondo verrà
valutato sulla fedeltà di lettura degli stereotipi e la loro resa
artistica sullo schermo; il primo non ha la pretesa di far riflettere
sugli stereotipi (di essi anzi non sa niente), semplicemente li produce;
il secondo, accanto a questa pretesa, aggiunge quella di volerli superare
mettendosi nell’accidentata e sempre difficile impresa di ricorrere
all’attualità. Su questa scia collochiamo l’operazione di Paolo Virzì nel
suo ultimo film, Caterina va in città, che , con rara capacità,
racconta gli stereotipi del nostro tempo senza risultare stereotipato,
anzi mostrando una certa levità e semplicità che non gli nuoce affatto,
sottraendosi opportunamente dalle sacche del film di denuncia sociale e
collocandosi invece nella produzione della nuova commedia italiana di
buona qualità. La scelta dell’attualità (nel film compaiono Berlusconi e i
Girotondini, Porta a Porta e il Maurizio Costanzo Show) fa correre al film
il pericolo di un precoce anacronismo o comunque quello di un giudizio sui
fatti non storicizzato. In realtà il film rifugge da questa pretesa di
giudizio sull’attualità storica e va a cercare piuttosto in essa alcuni
elementi umani , diciamo così universali, che oggi si concretizzano nella
cultura cosiddetta “di destra” e in quella “di sinistra”.
E se, a causa di questo, la sceneggiatura potrebbe apparire didascalica e
quasi didattica, proprio per la coscienza che ha il regista di voler
registrare gli stereotipi e i luoghi comuni della nostra storia italiana
recente, alcune scelte stilistiche e la bravura degli attori consentono al
film un retrogusto tutto italiano, che, ancora qualche giorno dopo la
proiezione, risulta un po’ amaro: dunque non solo buono per imparare, ma
anche per pensare.
Quali dunque i temi centrali del film?
Il rapporto educativo degli adulti con l’ultima generazione di
preadolescenti, il rapporto dei teen-agers con il mondo che hanno trovato,
l’intreccio tra cultura, denaro e potere, il qualunquismo dei mediocri.
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